RSI: LETTERE DEI CADUTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (R.S.I.)            


    PIER LUIGI PALIASSO è sottotenente del IV reggimento Alpini, classe 1921. Di lui ha parlato diffusamente la stampa in occasione della laurea ad honorem concessagli dall'Università di Parma nel 1955, ma “annullata” da un intervento successivo del Ministro della Pubblica Istruzione. D'altra parte risultò che la concessione era stata legittima, in quanto lo studente universitario Paliasso era stato sì condannato a morte da uno pseudo-tribunale dei popolo di Tortona il 5 maggio 1945 e “giustiziato” qualche giorno dopo, ma il Ministero della Difesa, con dispaccio del 16 novembre 1953, aveva già “discriminato ed assegnato alla prima categoria, senza punizioni”, il sottotenente Paliasso (era stato insegnante della Scuola Allievi Ufficiali della R.S.I.) e dichiarato che il di lui decesso, per le circostanze di tempo e di luogo in cui si verificò, deve ritenersi dipendente da causa di servizio di guerra.
    Lo stesso dispaccio dava il nulla-osta all'iscrizione del nome del Paliasso nella lapide dei Caduti per la Patria esistente all'Accademia Militare di Modena. Ma la riabilitazione ufficiale è nulla rispetto alla luce che sprigiona la figura del martire durante il processo. Si difese da solo, dimostrando una per una false le accuse fattegli, ma senza nascondersi, ché, data la faziosità e la cecità incombenti, sarebbe stato ugualmente condannato a morte. Concluse la propria difesa rivolgendo ai giudici queste parole: “Ricordate che, al di sopra di ogni legge e giustizia umana, c'è una legge e una giustizia divina che afferma: - Chi non ha ucciso non deve essere ucciso. - Voi risponderete davanti a Dio delle condanne pronunziate contro gli innocenti”. Condannato a morte, Pier Luigi chiese tre cose: l'onore delle armi, la facoltà di comandare il plotone d'esecuzione, il permesso di scrivere una lettera alla madre. Non volle firmare la domanda di grazia che altri aveva preparato e che venne firmata, in vece sua, da personalità del Movimento di Liberazione. Tale domanda, comunque, venne fatta sparire da chi aveva interesse ch'essa non pervenisse al Comando Generale. L'esecuzione avvenne il giorno 9. Il S. Tenente Paliasso si confessò e comunicò con grande raccoglimento, fece a piedi il tragitto dalle carceri al poligono, conversando serenamente con Don Eugenio Manduca cappellano delle carceri e con un altro sacerdote, don Nicola, che l'aveva confessato e volle accompagnarlo per la via del Calvario. Rivolse parole cordiali e perfino scherzose agli uomini del plotone, concludendo: “Vorrei che miraste al petto. Risparmiate il viso; così, se verrà mia mamma, potrà vedermi”. Si tolse il maglione di lana per consegnarlo a Don Eugenio con le parole: “Lo darete a mia sorella. Me lo ha fatto lei. Lo riceverà per mio ricordo”. E aggiunse: “Il Vangelo che mi avete regalato lo darete pure ai miei. Alla mia mamma. Lo terranno caro, statene certo”. E solo in quel momento diede segno di commozione e si lasciò scorrere sul volto qualche lacrima. Si riprese subito. Scelse il luogo dell'esecuzione, dispose il plotone, cambiò di posto il comandante del medesimo, che non sapeva da che parte dovesse collocarsi, secondo il regolamento; abbracciò i due sacerdoti e gli stessi uomini del plotone. Ritornato al suo posto, si passò una mano sulla fronte dicendo: - Dio mio, quanto mi costa comandare il fuoco! - Allora don Nicola esclamò: “Anche questo sacrificio sia per il Signore!”.
    Egli rispose: “Gesù, ti amo! Fuoco! Viva l'l ... “ - Non gli lasciarono finire la parola: Italia!
    Prima di uscire dal carcere aveva consegnato a don Eugenio la seguente lettera per la mamma:
 
     Tortona, 9 maggio 1945
 Mamma adoratissima,
    quando riceverai queste mie poche righe io sarò già in cielo, da cui ti proteggerò.
    Sono stato travolto dall'odio di parte e sono colpevole solo di aver amato la mia grande Italia!
    Non piangere, mamma, non piangere, te ne supplico. Un figlio perso così non è da piangersi '.
    Devi invece tenere la testa alta ed andare orgogliosa di me. Ma sappi, Mamma, che io non ho ucciso. Non ho fatto uccidere, non ho fatto torturare. Quindi non è stata giusta, agli occhi di Dio, la mia condanna.
    Vorrei dirti mille e mille cose, ma non mi è possibile; in questo momento tutti i pensieri mi attraversano il cervello.
    Ti prego di scusarmi tutto il male che vi ho fatto, tutte le pene che tu e Babbo avete sofferto per me. Ricordati di tuo figlio e prega per lui, che la sua anima ha tanto bisogno di ciò.
    E ricordati, Mamma adorata, che forse è bene che ciò accada per me! Così non vedrò l'Italia dibattersi in una nuova guerra... E poi, dopo questa, la guerra dei partiti. E nuovi fiumi di sangue scorreranno sul nostro suolo, e nuove lagrime scorreranno sul mondo.
    Fino ad un'ora fa non sapevo ancora quale missione mi avesse affidato Dio. Ora lo so: morire per la mia Patria.
    Ed io affronto questo supremo momento in piena serenità, con animo tranquillo, da “alpino” come sono sempre stato.
    Il mio ringraziamento vada al signor Picchi, a Don Nicola, a Don Eugenio, a tutti quelli che mi furono supremamente vicini in questa ultima ora. E voi pure ringraziateli, perché mi hanno alleviato veramente le pene.
 Con tanto affetto vi bacio. Eternamente vostro
 Pierluigi 
 
 
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    ADELINA CONTI MAGNALDI è moglie del vicepodestà di Cuneo, Giovanni Magnaldi. Questi dopo l'8 settembre sente il dovere di aderire alla R.S.I. e diventa commissario prefettizio della città. La sposa collabora con lui esclusivamente in opere di bene intese a lenire le sofferenze che la guerra impone, a sovvenire i poveri e i più sventurati. Nei giorni della "liberazione" viene arrestata e chiusa nel carcere con innumerevoli altri repubblicani. Il Tribunale Straordinario a carico della signora Magnaldi pronuncia sentenza di morte "come spia emerita che ha accumulato ingenti ricchezze a danno dei poveri". In realtà in casa della Magnaldi non viene trovato che squallore e miseria, tanto che le due figliuole, Carla di dodici anni e Dora di sei, trovano a stento chi le accoglie, in assenza dei genitori. Il loro padre, infatti, insieme col figlio Lucio di quindici anni, è latitante, perché ricercato da coloro che hanno proclamato che vogliono "giustiziare marito e moglie insieme uniti". La povera condannata, torturata ogni giorno fisicamente e moralmente, la sera del 3 maggio viene avvertita che all'alba dell'indomani sarà fucilata. Chiede l'assistenza del sacerdote. Le viene risposto: "Le canaglie debbono morire come le bestie e non come cristiani" "Bene", risponde la donna, "vuol dire che mi confiderò direttamente con Dio!".
    Nella notte scrive la seguente lettera:
 
    Lucio, Carla, Dora, tesori miei,
    la vostra mamma che vi ha tanto amato sta per lasciarvi: io nulla ho da rimproverarmi, perciò me ne andrei tranquilla e rassegnata, se non mi straziasse il pensiero per voi, miei figli amatissimi.
    Lucio, tu, da maggiore, se Dio avrà voluto togliervi anche il papà, veglierai sulle tue sorelle; tu, Carla, mia diletta, farai da mammina a Dora, che resterà, così piccina, priva delle carezze materne. Studiate, crescete buone e abbiate vivo l'esempio di vostro padre che vi ha tanto amato tutti e che vi ha dato prove indubbie del suo amore. Se poi la notizia della sua morte non fosse vera, avrete in lui una guida, un appoggio. Caro Vanni tanto amato, mi dicono che sei morto. Io non voglio crederlo. Qualcosa mi dice che non è vero. Se sei vivo, ti raccomando i piccoli. Amali anche per me, sorvegliali, fa che non sentano la mia mancanza. Ti ho amato tanto, caro Vanni; esaudisci il mio desiderio, così sarò più contenta.
    Addio, miei cari, ricordatemi e pregate per me, che io di lassù dove sarò, pregherò per voi. La vostra mamma.
 
 
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    GUIDO MARI di Milano è studente universitario quando nel '44 viene chiamato alle armi. E’ assegnato alla Brigata “Resega” e fa il suo dovere di combattente disciplinato e fedele. Nell'aprile del '45 si trova col suo reparto a Milano. Il giorno 25 fa parte della colonna che, al comando del Ten. Col. Gimelli raggiunge il presidio di Legnano che non dà più notizia di sé. Dopo inutili tentativi di entrare in città, nello stesso giorno il comandante decide di sospendere la lotta e di tornare a Milano con la colonna che ha avuto morti e feriti. A Nerviano la colonna viene bloccata dai partigiani. Dopo vani sforzi per aprirsi la via, il comandante ordina di cessare il fuoco e si presenta ai partigiani per la resa. Questa viene accettata, le armi sono deposte. Al mattino tutti i componenti del reparto sono incolonnati e condotti a Parabiago, dove vengono “custoditi” fino al 29. Alle ore 9 di tal giorno arriva una squadra di partigiani al comando di “Garibaldi”, il quale ordina agli ufficiali di seguirlo. Gli ufficiali sono: Ten. Col. Gimelli Ferdinando, cap.no Sala Osvaldo, un tenente, i sottotenenti Campioni Fernando e Gimelli Adriano, quest'ultimo figlio del comandante. Due militi, Cappelli e Guido Mari, o perché non riflettono sulla sorte a cui si espongono, o per innato sentimento di fedeltà, seguono i cinque ufficiali. Vengono tutti portati a Nerviano davanti a un tribunale del popolo. Dopo contrasti e proteste dei componenti del tribunale e dello stesso presidente, l'allora sindaco di Nerviano, le pressioni e gli espedienti di “Garibaldi” fanno sì che tutti sono condannati a morte. Portati davanti alle mura del cimitero, una folla vi si raccoglie ed osserva i condannati che si confessano serenamente dal parroco del luogo accorso in fretta. Dopo la confessione, i condannati consegnano al sacerdote oggetti personali e affidano i saluti per le loro famiglie. All'ultimo istante avviene un fatto che merita rilievo, perché dimostra che anche nelle orrende carneficine della primavera del '45 talvolta brilla una luce nelle stesse folle troppo simili, spesso, a quella che gridò il crucifige nella Passione. Alla folla disposta a semicerchio davanti ai condannati, il Ten. Col. Gimelli si rivolge e chiede grazia per il proprio figlio. Un mormorio di consenso si leva e lo stesso “Garibaldi” è costretto a sottrarre il sottotenente Adriano. Allora si leva un'altra voce: - Graziate il più giovane! - E la voce è seguita da molte altre che imperiosamente costringono “Garibaldi” a sottrarre il più giovane della schiera, che risulta essere uno dei due militi che avevano voluto accompagnare i loro ufficiali. L'altro milite è Guido Mari, il quale, pur avendo fatto presente ch'egli è semplice soldato e non ufficiale, non trova grazia. La sua straordinaria fedeltà gli è costata la vita.
    Al sacerdote che l'ha assistito ha consegnato questa lettera:
 
    Miei cari,
    muoio senza rimpianti, perché so di avere la coscienza pulita e so di avere compiuto il mio dovere verso la Patria.
    Mai come ora sento di amarvi e vi sento vicini. Non piangete troppo su di me e ricordatemi sempre nelle vostre preghiere.
    So di aver sempre fatto il mio dovere di figlio e di avervi sempre amato con tutto me stesso, anche se forse non ve l'ho saputo sempre dimostrare.
    Perdonatemi se qualche dolore vi ho dato. Iddio vi protegga e vi dia la forza di sopportare questo grande dolore.
    Che il mio sangue frutti almeno qualcosa di buono per l'Italia che tanto ho amato Vi abbraccio e vi bacio forte forte.
    Guido
 
 
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    ENRICO VEZZALINI è tra coloro che non solo hanno pagato con la vita la loro fede, ma hanno trovato accusatori anche dopo la morte. Fuori di ogni intento apologetico, ecco dei dati di fatto e dei documenti.
    Il primo rilievo ci riporta alla veramente orribile strage di Ferrara del novembre dal '43 che, appena conosciuta, mandò sulle furie Mussolini. Di quell'azione “stupida e bestiale” (così fu definita dal Capo della R.S.I.) si è voluto chiamare responsabile il Vezzalini. E’ invece dimostrato che fu condotta dal gruppo di estremisti che, durante le sedute al Castello di Verona, si atteggiavano a giustizieri e colsero a volo la notizia dell'assassinio di Ghisellini, federale di Ferrara, per un'azione di rappresaglia intonata ai loro criteri. Il fatto che il Capo della R.S.I. dopo aver condannato quell'azione, mandò appunto il Vezzalini a coprire il posto del Ghisellini e più tardi lo creò capo della provincia di Ferrara, e per sé eloquente. Rimasto in quell'ufficio fino all'agosto del '44, Vezzalini fu poi mandato a reggere la provincia di Novara, particolarmente difficile per le numerose forze partigiane che vi operavano e i travasi di ogni genere attraverso il confine svizzero. Là ebbe la conferma di quella realtà che egli aveva già intuito, fin dall'8 settembre, quand'era Ispettore del G.U.F.: che cioè agli italiani che non accettavano di passare al nemico, restava soltanto “il dovere di morire da uomini d'onore”.
    Non tutti i gerarchi uguali o superiori a lui, seguivano la stessa linea; perciò il Vezzalini trovò anche tra loro dei critici acerbi. Quanti però lo hanno conosciuto da vicino non mettono in dubbio la sua dirittura, il suo disinteresse (dopo aver ricoperto tante cariche, muore nella povertà più completa), la sua dedizione ad una causa che per lui era tutto. Per lui il fascismo si identificava col bene della Religione e della Patria. Anche nella guerra in Spagna aveva combattuto “per la civiltà cristiana”, come gli antichi crociati. Negli ultimi mesi della R.S.I. ebbe incarichi ispettivi. Nel giorno del progettato concentramento in Valtellina, uno dei pochi reparti che arrivò fino a Menaggio, sostenendo aspri combattimenti coi partigiani ed avendo parecchi morti e feriti - lo stesso comandante restò ferito - fu quello del prefetto Vezzalini. Arrestato il 28 aprile fra Cernobbio e Corno, fu portato a San Fedele d'Intelvi, poi a Omegna, quindi a Novara. Qui fu giudicato in un'atmosfera arroventata, quando ogni fatto d'arme, ogni uccisione di partigiani, comunque avvenuta, era addebitata a chi sul luogo aveva rivestito cariche. Il processo si svolse il 14 e il 15 giugno senza nessuna possibilità da parte dell'accusato di procurarsi prove e testimonianze a discarico. Condannato a morte ed omesso, per inspiegabile errore, il ricorso in Cassazione, egli restò in serena attesa più della morte che della ripresa di un dibattito giudiziario che, dato il momento e il luogo, non poteva essere che una gazzarra umiliante. Non gli mancò l'amarezza estrema: seppe che l'allora prefetto di Novara, già da lui liberato dal carcere per l'“insigne personalità sua di medico noto e onoratissimo”, aveva spedito a Roma l'inqualificabile telegramma pubblicato da tutti i giornali: “E’ parere di tutta questa popolazione e mio personale che il sanguinario Vezzalini sia fucilato”. La fucilazione ebbe luogo all'alba del 23 settembre. Va ricordato un particolare che avvicina il Vezzalini ai grandi condannati politici di ogni tempo. Durante il lungo periodo intercorso fra condanna ed esecuzione gli è stata offerta la fuga dal carcere: poiché tale offerta non poteva essere estesa agli altri sei condannati con lui, la respinse con le parole: “0 tutti o nessuno!”.
    Monsignor Pozzo che assisté il condannato, scriveva alla di lui madre: “Il suo contegno mi ha edificato e direi quasi meravigliato. Ho ammirato la sua serenità d'animo, il suo coraggio, la preparazione al grande passaggio... La sua parola appassionata riuscì a portare la rassegnazione e la serenità ai compagni di sacrificio. Sono persuaso che già si trovi a godere la pace dei giusti.... E’ caduto da santo!”. E il giudice, pure presente all'esecuzione, ha dichiarato: “Sembrava andasse ad un ricevimento, tanto era composto, dignitoso e sereno. Io, avversario politico, ho doluto abbracciarlo e baciarlo”.
    Quale pluridecorato, il Vezzalini ha chiesto d'essere fucilato al petto: non l'ha ottenuto. Ma le sue ultime parole sono state: - Perdono a tutti! Viva l'Italia! Viva il fascismo! -
    Poco prima ha scritto alla moglie:
 
    23 settembre 1945
    Mia Lena, mia sposona santa, mia sposa d'oro,
    ecco quell'alba senza aurora che gli uomini nemici hanno voluto ed il Signore ha concesso. Fra poco sarò fucilato.
    Ieri sera mi sono addormentato col pensiero rivolto al prossimo decimo anniversario del nostro matrimonio: nella notte, svegliato, penso come fare a farti giungere per quel giorno alcune rose.
    T'amo Lena, più che non ami la vita. Non è una frase: è una luce, pure in questo momento.
    Immagino quale sarà lo strazio tuo e quello di Luisa. Ennio, per fortuna non capirà.
    Non ti rivolgo le solite raccomandazioni di fedeltà alla mia memoria: farai sempre quanto ti detta il tuo cuore e non sbaglierai mai. Ti chiedo perdono di qualunque male commesso e specialmente di... questo, che non posso evitare. Ti scongiuro di fare quanto puoi per essere forte, perché non scenda nel cuore dei nostri due piccoli questa aria di tragedia.
    Soffro pensando a voi: restate poveri e soli. Voi meritavate un altro destino!
    Iddio, che ora non può non ascoltarmi, deve darvi aiuto.
    Avrei però voluto essere ancora con te, con voi. Mai come ora ho sentito internamente quanto sia infinito il mio amore per te e quanto sinceramente profondo e violento sia l'affetto per la mia Principessa d'oro e per il mio Ennio, il mio bel maschione che mi portava nella sua vigorosa bellezza tanto ricordo di te.
    Vi amo, vi amo, vi amo.
    Tu sai quante cose potrei dire, quante!
    Me ne vado, forte, forte, forte.
    Oggi più di ieri la mia certezza che la Fede che mi ha portato a cadere per lei è la vera, la giusta, mi dà l'orgoglio di chiedere a te ed ai miei bambini di non vergognarvi del nome che portate: sono stato sinceramente onesto in tutta la mia vita privata, lealmente soldato in tutta quella politica.
    Non mi atteggio a martire: ma tu almeno non disprezzare questa fedeltà che riaffermo nel momento in cui mi costa la vita.
    Possa almeno il mio sangue placare l'odio degli uomini, compensarli di ogni altro sadismo di vendette e... quelli che resteranno possano guardare oltre ed assai più in alto di questo corpo che vale tanto poco e dell'egoismo che fa cercare per le persone e non per la Patria la soddisfazione di vittorie che non danno storia.
    Tu sai, tu che mi sai tutto, che sono sempre stato tenace in questa mia Fede: oggi mi si chiama traditore; ma io non ho mai tradito. Non la Patria, alla quale ho dato, come soldato, tutto il povero valore personale che possedevo; non la umanità, alla quale ho offerto un lavoro senza soste ed il mio poco ingegno: non la famiglia alla quale penso con adorazione fino all'ultimo momento: a mio Padre, che venero ed ho sempre venerato; a mia Madre che vorrei non sapesse mai (ed in questo c'è il mio ultimo grido d'amore per lei!), a Nora, che mi fu, più che sorella, amico, ed ai tuoi cari, ad Amos ed a Luisa, buoni come una leggenda... a Luisina, nella sua nuvoletta, a Neno, nella sua innocenza a te, a te, a te che sapesti essere tutto.
    Non ho tradito, non tradirei, se restassi vivo. Forse per questo cado. Ma con me non cade il mio Ideale. Se non fosse perché ci siete voi, sarebbe bello cantare la nostra canzone di Fede e finire urlando: per l'Italia e per il Fascismo: Viva la Morte! Alleva Ennio e Pucci: falli come te e dì loro che il papà non era un criminale. Gli uomini hanno sbagliato.
    Ti adoro, sposa santa, e ti bacio e bacio tutti in te che fosti e sarai fino all'ultimo la mia amica.
    Tuo Enrico.
    Ciao, Puccettino, principessa d'oro. Ciao, Neno, bello come un amore.
 
Al padre:
 
    Babbo,
    il tuo Enrico, che volesti generoso come tuo padre, garibaldino, e, come te, volontario per la Patria, cade. Cade da soldato della propria Fede, con fierezza. Sii fiero.
    Sii forte.
    Bacio te, mamma; Nera, Bianca... ed i miei cari. Aiutali; li lascio nella miseria.
    E ricorda sempre loro che non c'è che la vita del sacrificio che possa permettere di morire con assoluta fortezza.
    Ti bacio.
    Tuo Enrico
 
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